Fine giugno; una domenica
mattina. Per molti doveva essere il momento per concedersi finalmente una
giornata di mare. Ma, a dispetto delle tante preghiere, il sole non si è
nemmeno affacciato. Densi nuvoloni marezzati di bianco incombono sul centro storico di Martina Franca. Sono
le undici passate. Su piazza XX settembre, lo ‘stradone’, i turisti passeggiano
sotto gli alberi, vicino alle panchine dei pensionati: rimediano alla gita in
spiaggia andata buca. C’è un gruppo di bambini coi cappellini tutti uguali,
guidati da sei adulti: una colonia, di sicuro; anche loro con l’abbigliamento
ibrido del turista tradito dal maltempo: infradito, bermuda e giubbotto. Se ne
stanno col naso per aria e osservano il san Martino a cavallo che sovrasta
l’arco settecentesco da cui si accede alla città vecchia. Comincia a piovere.
Entrare in un posto coperto diventa una necessità.
Subito attraversato
l’arco, che in spregio alla statua del santo cavaliere è intitolato a santo
Stefano, si apre piazza Roma. È un trapezio, delineato dalle eleganti facciate
di palazzotti aristocratici; al centro, tra palme e cedri del Libano, una
grande fontana scroscia senza posa. Un intero lato della piazza è occupato
dalla facciata barocca del Palazzo
ducale.
Oggi è il municipio, sede della biblioteca civica e teatro del
Festival della Valle d’Itria. Un tempo fu la dimora dei duchi di Martina, i
Caracciolo. Basta attraversare il portale e infilare la scalinata subito a
destra per ritrovarsi faccia a faccia con gli antichi padroni di casa. Nella
prima sala al piano nobile del palazzo, una teoria di grandi tele raffigura
alcuni dei duchi Caracciolo vissuti nel Seicento.
Cavalieri, prelati, uomini
dai nasi aquilini e dai baffi all’in su. I loro sguardi austeri fiammeggiano
verso il povero visitatore, appena varcata la soglia. Ma quelle occhiatacce non
devono spaventare. I padroni di casa conoscevano il bel mondo e amavano godersi
la vita. Se si guarda la volta lo si
intuisce. Uno stormo di uccelli se ne sta appollaiato sul cornicione dipinto: beccacce,
falchi, pettirossi, pavoni, pappagalli, trampolieri: un tripudio di colori e
forme graziose. E poi, ecco una scimmietta che stuzzica un uccellino, una
farfalla si è appena posata su una mensola, lì c’è un serpente nel becco di un
falco. Un angolo di foresta tra le mura del palazzo.
Ma è quando si entra nelle
sale successive, quelle affrescate da Domenico
Carella nel 1776, che si capisce appieno quale sia lo spirito del luogo.
Una per tutte: la Sala dell’Arcadia.
Un inno all’arte e alla bellezza voluto dal duca Francesco III. Eccolo al centro della parete, a braccia aperte
verso gli spettatori, nel suo sgargiante abito a righe rosse e gialle. Intorno
a lui musici, danzatori, amanti, tutti immersi in una deliziosa campagna
primaverile. Qui dentro splende il sole.
Fuori, invece, il tempaccio
non sembra migliorare. Dalle grandi finestre si può vedere tutta la piazza. La
gente entra ed esce dai negozi e dai caffè, in cerca di un poco di riparo e di
ristoro. gremiti per ormai l’ora di un
aperitivo. Ormai la gita al mare è sfumata senza rimedio.
Splendide sale che gratificano per la mancata giornata. È stato un piacere condividere con voi l'entusiasmo per la visita a questi illustri padroni di casa. Ciao Stefania
RispondiEliminaTra monti, mari e gravine