Ne ho visto il nome più volte sulle indicazioni stradali
durante le numerose gite in Basilicata. È una zona che visito spesso, ma non sono
mai andata in quel paese. Passando velocemente in auto, ne ho spesso letto il
nome male, Colabrodo…Calabrone…, scatenando le risa generali dei presenti per
la mia proverbiale distrazione. Alla fine ho imparato che su quel cartello
c’era scritto Colobraro, nonostante
il mio colpo d’occhio mi giochi ancora qualche scherzo quando lo incontro.
Più tardi ho scoperto che Colobraro è noto come il paese che porta sfortuna se nominato. Sembra che derivi da un episodio
avvenuto prima della Seconda Guerra Mondiale: un avvocato, dopo una sua
affermazione, avrebbe detto: “Se non dico la verità, che possa cadere questo
lampadario!” Pare che il lampadario sia caduto per davvero. Non me ne sono
preoccupata più di tanto: anche a voler essere scaramantica, ormai l’avevo
nominato troppe volte. Era troppo tardi per lasciarsi prendere da delle dicerie.
Ecco perché ho beatamente continuato a nominare Colobraro. Questa leggenda,
anzi, ha alimentato un’infinita voglia di visitare questo paese, arroccato tra
le montagne della Basilicata.
Ho letteralmente dirottato l’auto in un caldo pomeriggio
estivo durante una gita nelle vicinanze: solo una passeggiata nel centro storico!
È il primo pomeriggio. Nessuno in
giro, a parte tre signori anziani che si incontrano alla panchina sul
belvedere.
“Scusi, per il centro storico da che parte?”
“Dovete fare questa salita e arrivate sotto il castello… su
di qua.”
Una lunga, ripida salita lastricata di ciottoli si alza
davanti a noi. Non ci scoraggiamo e ci avviamo: il segreto è non pensare a
quanto manca, ma concentrarsi su mettere un piede uno davanti all’altro. Come spesso
accade, è la fine la parte più dura e lo stesso vale per questa salita, sempre
più ripida.
Siamo ai piedi del castello, esattamente come ci aveva detto il signore sul belvedere. Le strade sono deserte; si sentono solo rumori di gente che chiacchiera e armeggia con le stoviglie dalle case che danno direttamente sulla stradina di ciottoli. Giriamo intorno al castello, pensando di trovarlo chiuso visto l’orario: sono appena le 15. Per quanto strano, troviamo il cancello aperto e niente a farci intuire che l’ingresso sia interdetto. Comincia l’esplorazione.
Tutte le porte sono chiaramente chiuse, ma
si possono vedere tutti gli ambienti esterni. Attraversiamo un arco, passiamo
un cancelletto, saliamo una piccola scalinata. È evidente che il castello è stato
restaurato da poco e la presenza di sedie di plastica accatastate ordinatamente
fa intuire che sia anche il luogo in cui si svolgono altri eventi. L’unica
certezza che abbiamo adesso è lo spettacolo davanti ai nostri occhi: dalla
parte più alta si domina il paesaggio lucano, dal Pollino al Golfo di Taranto,
una di quelle visioni che affascinano e spaventano allo stesso tempo, che ti fanno
fare un passo indietro e comunque ti danno un senso di libertà ineguagliabile.
Non saprei dire quanto tempo abbiamo passato su quella terrazza a cercare di
fotografare nella mente quella visione e a provare ad afferrare e trattenere
quella sensazione. Posso solo immaginare come dev’essere guardare l’alba da
quassù. L’unica cosa che ci ha convinti a muoverci è stato il caldo e la
mancanza di ombra.
Torniamo indietro: scendiamo la scalinata, riattraversiamo
il cancelletto, ripercorriamo il
porticato e rieccoci all’entrata.
E ora dove andare? Per fortuna Colobraro ci semplifica la
vita e ci offre due vie e noi scegliamo quella di fronte a noi. Ironia della
sorte, si chiama via Taranto, come se l’intuito e il paese stesso volessero
ricordarci da dove veniamo. Pochi passi e sbuchiamo in Piazza Duchessa D’Aosta,
che dà un senso di intimità (quasi paradossale essendo in una piazza). Lì nel
centro scorgiamo una fontanella e subito dietro delle panchine all’ombra, il
posto perfetto per passare qualche momento in tranquillità sotto le fresche
frasche. Accanto c’è la chiesa madre dedicata a San Nicola di Bari, che con le
sue campane che rintoccano l’ora ci fa saltare (letteralmente) dalle panchine:
non è il luogo più indicato in cui trovarsi quando rintocca l’ora. A differenza
del castello, lei è chiusa. Da quel punto rialzato rispetto al resto della
piazza ci godiamo la vista: non c’è molto se non le case in pietra che
delimitano lo spazio, ma è un ambiente raccolto, familiare, che ti dà
l’impressione di un luogo dove davvero tutti si conoscono e in fondo sono una
grande famiglia. Quella piazza è il luogo d’incontro e di socializzazione, come
era una volta. Abbiamo un assaggio di questa consuetudine vedendo un bambino
che viene alla fontanella per riempire il suo fucile ad acqua (e io penso al
Superliquidator con cui giocavo con mio fratello da piccola); incontra degli
adulti che stavano parlando tra loro, scambia qualche parola con uno dei due e
torna a casa. Chiacchiera un po’ persino con noi, ci dice che è il suo
compleanno e a casa stanno festeggiando, lì giusto dietro l’angolo. Il tutto
con un fare da ometto che non vuole aiuto per trasportare il suo carico
d’acqua, perché ce la fa, anche se è evidente che è più pesante di quel che si
aspettasse.
Siccome non possiamo restare qui in eterno, decidiamo di
esplorare le viuzze del centro. Ne prendiamo una a caso, fiduciosi che non ci
perderemo. Scendiamo per un vicolo alberato, giriamo e risaliamo e… risbuchiamo
in Piazza Duchessa D’Aosta: abbiamo girato in tondo! Vorrei continuare a
girovagare per il centro storico, ma chi mi accompagna adesso non vuole
rischiare di perdersi. Avendo un bel po’ di strada da fare per tornare a casa,
decidiamo che è giunto il momento di avviarci verso l’auto: in fondo sono stata
accontentata, la passeggiata nel centro storico è stata fatta.
Ripercorriamo la strada da cui eravamo saliti, che anche in
discesa non è meno impegnativa, tanto è ripida. Ritroviamo il signore che ci
aveva dato le indicazioni: è ancora lì a godersi la vista sul belvedere. Quando
si accorge di noi, con un gran sorriso, ci chiede se abbiamo visto il castello
e il panorama che si gode da lassù. È l’immagine dell’amore per la propria
terra e della gioia di condividerla con chi ancora non la conosce.
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