Nel Sud di Carlo Levi. Una giornata ad Aliano, tra le case e i calanchi di "Cristo si è fermato ad Eboli"
L’auto corre veloce
lungo la statale 598. Per un lungo tratto il nastro d’asfalto costeggia l’Agri,
uno dei maggiori corsi d’acqua della Lucania, che dall’entroterra scivola lento
fino alle fertili coste dello Jonio. Ma in questo periodo dell’anno, dopo
l’arsura dei mesi estivi, è ridotto a poco più di un rigagnolo pietroso. Il
Pollino è solo a pochi chilometri, verso sud. Eppure i suoi boschi e la sua
frescura non sono che un miraggio, qui. Siamo nel cuore riarso della
Basilicata, nel deserto argilloso dei calanchi.
Con
una curva a gomito la strada comincia la sua salita verso Aliano. Tutt’intorno
il paesaggio si increspa, come un mare pietrificato. I calanchi sono fenditure
scavate dalle piogge sul terreno friabile e privo di vegetazione. Si susseguono
e si ramificano, creano grappoli di terra gialla, alti poche decine di metri,
spaccati in gole e burroni, sui quali è impossibile arrampicarsi.
Per raggiungere il
paese c’è da passare un ponte. Intorno solo il vuoto del precipizio. Quando la
macchina ci passa sopra un falco ispeziona il suo territorio, veleggiando calmo
su quelle dune.
Gagliano a prima vista non sembra un paese,
ma un insieme di casette, bianche, con una pretesa nella loro miseria.
«Carlo Levi è vissuto ad
Aliano dal settembre del 1935 fino al maggio del ’36. Era stato condannato a
tre anni di confino perché antifascista; poi quando fu proclamato l’impero
tutte le pene per reati politici furono condonate». La guida della casa di confino di Carlo Levi, una
donna sui quarantacinque anni piena di entusiasmo, ci accompagna per le stanze
dell’abitazione. «Era
una casa signorile, questa; aveva perfino un gabinetto, fuori, sulla scala
d’accesso». Tempi
duri quelli in cui i servizi igienici erano uno status simbol. Ma oltre alla
toilette la casa possiede anche una magnifica terrazza; da lì lo sguardo può
vagare all’infinito sul paesaggio circostante. La casa perfetta per un pittore.
«Avete visitato la
pinacoteca?» domanda, «vi sono conservate molte delle tele di Levi».
Maternità. La targhetta con il titolo
sotto il quadro traduce in parole il primo pensiero dell’osservatore. Su una
parete della pinacoteca la tela raffigura una donna con un bambino. La si
direbbe una Madonna, ma al posto dei canonici blu e rosso, gli unici colori
sono il nero e l’ocra, che disegnano volti emaciati e grandi occhi sporgenti.
Sono i colori di quel mondo, il mondo della gente di Cristo si è fermato a Eboli: ocra come i calanchi, nero come la
fame e la malaria che li affliggono. Quanta sacralità emana da quell’immagine,
una sacralità che niente ha a che fare con la religione, ma che invoca compassione
per la sofferenza umana.
Chi conosce il romanzo sa bene
che nella società contadina di Aliano – e in buona parte del Mezzogiorno - la
religione lasciava il passo ad un misto di superstizione e magia che scandiva
l’esistenza della gente con rigore inappellabile. Una delle figure che ancora
restano di quell’universo è la “maschera cornuta”. Le maschere cornute animano
il carnevale di Aliano e hanno, nel quadro delle credenze locali, una funzione
apotropaica: scacciano il malocchio e gli spiriti cattivi. Uomini coperti da faccioni
di cartapesta con lunghe corna di capra corrono per le strade e urlano e
agitano i mille campanacci che li cingono, spaventando i passanti con il loro
baccano. Ricorderebbero i mamutones sardi se non fosse per il coloratissimo
copricapo, fatto di centinaia di striscioline di carta che frullano ad ogni
passo.
Sulla piazzetta davanti alla
chiesa, al suono febbrile degli organetti, le maschere cornute saltano
ipnotizzate, scuotono i cappelloni multicolori e afferrano di tanto in tanto
una donna nel tradizionale abito nero, trascinandola in un ballo sfrenato. Il
contrasto tra i due costumi è fortissimo: «Una volta ci si sposava con questo
vestito» spiega un’anziana dopo essersi fatta fotografare con la lunga gonna
nera finemente ricamata in oro. Nero per il matrimonio. Nero per il lutto. Nero
per la Maternità che presagisce la
morte.
Carlo Levi è stato uno dei pochi
uomini del Nord che abbiano davvero amato il Sud e la sua gente, senza le mire
economiche o politiche che spesso hanno caratterizzato le attenzioni del Settentrione
verso il Mezzogiorno. Ciò che Levi ha preso a piene mani da questa terra è
unicamente una grande ispirazione. E Aliano oggi vive del suo ricordo. Un parco
letterario, una pinacoteca a lui dedicata, un museo delle tradizioni contadine,
manifestazioni letterarie. In questo
fine settimana di settembre è in corso il “Piccolo festival delle radici”, due
giorni di conferenze, sfilate in costume, mercatini. Oltre all’esposizione
permanente dedicata a Levi, qui si può visitare anche quella del newyorkese
Paul Russotto, pittore contemporaneo di origini alianesi. Colpisce tanta
ricchezza d’arte in un piccolo borgo sperso nella provincia brulla.
È ormai il tramonto. L’auto
imbocca il ponte nella direzione contraria, verso il mare. I calanchi si
perdono nella penombra, e le loro creste scompaiono nella foschia, evanescenti
come cenci di fantasmi. I campanacci delle maschere cornute ancora risuonano
nelle orecchie mentre la radio gracchia notizie di caporalato nei campi del
Mezzogiorno, di braccianti stranieri sfruttati senza pudore. E la mente va ai
contadini di Levi, alle loro miserie, ai loro tormenti. Ha ancora bisogno di
maschere cornute il Sud: i suoi demoni non sono ancora stati scacciati.
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